Saldarelli, dell'aver disegno - Riccardo Saldarelli

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Saldarelli, dell'aver disegno

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FRANCESCO GURRIERI - febbraio 2006 - saggio di presentazione al volume "L'AFFRESCO DELLA VIA CRUCIS"

SALDARELLI, DELL’AVER DISEGNO
Il suo posto nella cultura artistica europea e una risposta a Walter Benjamin

L’aver disegno, secondo il Baldinucci (“Vocabolario Toscano dell’Arte del Disegno”, 1681) altro non era che “saper ordinatamente disporre la ‘nvenzione, doppo aver bene, e aggiustatamente delineata e contornata ogni figura, o altra cosa che si voglia rappresentare”.

Ora, se c’è un artista che può esibire le valenze baldinucciane e oltre, questo è proprio Riccardo Saldarelli; che da bravo sperimentatore della figura e delle tecniche artistiche ha contribuito alla ricerca della “computer art”; e che anzi, ha concorso a fare di questa un nuovo spettro disciplinare teso allo sviluppo delle tecnologie multimediali, ben certificate anche da Vito Cappellini (che dell’elaborazione digitale dell’immagine è stato uno dei pionieri internazionali).

Saldarelli (classe 1942) esordisce presto all’arte, nel 1960, alla Galleria “Il Cenacolo” di Cagliari, ma è a Firenze, durante i suoi studi universitari che costruisce saldamente il suo back-ground, in una stagione in cui il mondo artistico figurativo si divideva fra “annigoniani”, “rosaiani” e “farulliani”. Rosai era morto nel ’57 ma la sua poetica era passata saldamente ai suoi allievi (Tirinnanzi e Faraoni, soprattutto); Farulli privilegiava la tematica politico-sociale (secondo uno schema tardo-neorealista vivificato da innesti bertiani); restava Annigoni, più silenzioso ma più avvertibilmente metodico e più disponibile ad educare e incoraggiare chi lo avvicinava nel suo studio (forse, l’ultima “bottega” autenticamente rinascimentale).

Non è un caso che Saldarelli frequenti quest’ultimo studio, sia pure in modo dialogico e quasi mai identificandosi nel maestro, come è in parte accaduto ad altri. Quella frequentazione serve a Saldarelli per approfondire e verificare la vocazione alla figura piuttosto che a plasmarla “a immagine e somiglianza”; il nostro Artista è già maturo ed ha già in sé quel potenziale espressivo che libererà negli anni successivi. E tuttavia l’esperienza gli serve per maturare quelle capacità che Marsan ebbe a cogliere nelle sue “Pagine di Viaggio” (1973), ove ravvisava una “geometria ingentilita e addolcita da una sorta di magico realismo che imprime all’immagine la tensione che è propria di un qualcosa in bilico tra realtà e memoria, tra miraggio e magia, tra confessione e allusione”.

Saldarelli può godere, ormai, di un’ininterrotta attenzione, firmata ai piani più alti dell’esercizio critico, da Dino Pasquali a Federici, da Marsan a Paloscia, a Mauro Pratesi e altri ancora.

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Ma dunque, cosa può ancora mancare nella letteratura artistica che meriti la sua opera ? Manca, forse - ed è in questo solco che postuliamo qualche svolgimento aggiuntivo - la collocazione nello scenario più ampio, europeo e internazionale della sua opera. Una collocazione che ne postuli la presenza nei grandi movimenti artistici che hanno chiuso il Novecento e si affacciano ora al nuovo secolo. Perché Saldarelli, con la sua ricerca computer-artistica ha intuìto assai presto questo appuntamento, non facendosi trovare impreparato dalla complessità della nuova “domanda artistica”, ove le incursioni di una ricerca indisciplinata si fanno sempre più numerose e dove l’ibridazione fra i vari settori vive di sconfinamenti reciproci, ove tardive “performance” continuano a scandire il tempo.

Le opere di Saldarelli restano così “umanisticamente” fedeli ad una “speranza di rinascita” interdisciplinarmente assai ricca; e tuttavia, traversano e tributano alla contemporaneità, nei suoi vari e talvolta compresenti percorsi, la loro testimonianza. Nella moltitudine espressiva che caratterizza lo scenario degli ultimi anni, Saldarelli avrebbe potuto benissimo consegnarsi e navigare in quell’iperrealismo che ha certificato la presenza di tanti altri, nella “scultura sociale” praticata da Beuys (le installazioni) proprio per la sua conoscenza diretta dello “stato dell’uomo nel mondo”. Saldarelli è un “anti-eroe”, attento ad un “nouveau réalisme” alla Raysse, interessato ad una “igiene della visione”, verso un “monde neuf, aseptisé e pur” ove, più di altri, sa trovare il valore ontologico della persona umana, concetto e struttura dell’essere in generale. Occorre insistere su questo punto perché la “rottura epistemologica” compiuta da Duchamp quasi un secolo fa è stata riassorbita proprio dalla perseveranza di artisti come Saldarelli. Jean-Luc Chalumeau (Sorbonne Nouvelle - Paris III) si è recentemente sfogato dicendo che “le monde, au sein duquel la critique d’art n’a plus qu’un role marginal, a reéllement promus, valorisé et imposé le n’importe quoi en tant qu’art» (Les théories de l’art, Paris 1994). Del resto, Jean Clair, nel suo Le retour au dessin, dopo aver richiamato l’esaurirsi dei movimenti «pop» o «concettuali», parla della “reconquête patiente d’un métier”. «Le dessin redevint alors pour eux ce qu’il avait été à d’autres moments de crise: le moyen modeste mais sûr de renover fil à fil, trait à trait, le dialogue qui avait été rompu avec deux disciplines».

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Scriveva Paloscia che «Saldarelli, pittore di notevoli capacità espressive, ha affrontato il tema con convincente rielaborazione dei sacri accadimenti, utilizzando l’esperienza di ricerca artistica irripetibile, vissuta personalmente nelle regioni mediorientali e che ancora tanta influenza ha sulla sua arte nutrita di rivisitazione tra il Rinascimento e il contemporaneo, fra le misteriose decorazioni parietali delle moschee iraniane, i reperti del deserto e i costumi di un territorio profondamente inciso da civiltà plurimillenarie”.

Così siamo nel vivo del tema della “Via Crucis”, che dobbiamo riguardare da più punti di vista, illuminanti della grande maturità tecnica dell’affresco, della quasi inimitabile capacità narrativa perfettamente evocante i grandi cicli di affresco delle chiese medievali, di un “sapere” artistico dimostrativo di una sapienza e di una confidenza con tutta intera la cultura artistica con cui Saldarelli si identifica.

La “Via Crucis” è il tema della maturità dei grandi artisti. Un tema grandioso e drammatico: in sé e per sé, il viaggio che Gesù, carico della Croce, fece dal pretorio di Pilato al Monte Calvario, dove fu crocifisso e morì. Episodi della passione, diventati pratica e devozione di cui non si conosce l’origine, ma già praticata nel XII - XIV secolo, all’epoca delle Crociate. I Crociati, infatti, tornando dai luoghi sacri ebbero cura di erigere nei loro paesi la “memoria del Calvario”. In ciò, più tardi, ruolo determinante lo ebbero i Frati Minori, a cui fu affidata la custodia dei “luoghi”; peraltro, il consolidarsi del culto della “Via Crucis” si deve soprattutto a S. Leonardo da Porto Maurizio che, nel corso di un ventennio di missioni (1731-51), mise in moto anche un meccanismo di indulgenze per il pio esercizio.

Ma la singolarità e il fascino della “Via Crucis” di Saldarelli risiede nella profonda conoscenza che l’Artista ha dei luoghi, delle tradizioni, dei vestimenti, dei tratti somatici di quel contesto antropologico in cui si consumò l’evento. Così è, e si caratterizza il dispiegarsi del “registro affrescato” che realizza le quattordici “stazioni”, da “Gesù condannato a morte” a “Gesù posto nel sepolcro”. Accade così, dopo la settecentesca mirabile versione datane dal Tiepolo nel S. Polo di Venezia e quella del Poma nella Cattedrale di Treviso (entrambe citate nell’Enciclopedia Cattolica), che questa di Saldarelli sarà forse la prima del XXI secolo, prodotta nei primi anni ottanta con la tecnica classica dell’affresco ed oggi riassemblata valendosi anche della tecnologia digitale: a dimostrare ancora una volta che, quando genio e creatività “soffiano” nell’animo dell’artista, ogni tecnica artistica, anche la più moderna, può essere intelligentemente piegata e personalizzata inconfondibilmente alla propria poetica.

Ed allora Saldarelli dimostra, con un’avventura tutta personale, che anche nella stagione della “riproducibilità tecnica dell’opera d’arte” di cui ci ha reso avvertiti Walter Benjamin, l’artista può riuscire a recuperare la potenziale perdita di carisma dell’opera, riproponendo, in definitiva, lo stesso concetto di creatività e di genialità. Saldarelli sembra avere efficacemente assorbito l’indicazione di Paul Valéry (“Pièces sur l’art”, Paris 1939) sincrona alla grande riflessione di Benjamin sulla “riproducibilità”: “Né la materia né lo spazio, né il tempo non sono più, da vent’anni in qua, ciò che erano da sempre. C’è da aspettarsi che novità di una simile portata trasformino tutta la tecnica artistica, e che così agiscano sulla stessa invenzione, fino magari a modificare meravigliosamente la nozione di Arte”. Ecco, anche di questa personalissima ed efficace risposta a Benjamin e a Valéry, oltre che per l’intrinseca qualità del suo linguaggio artistico, dobbiamo esser grati a Saldarelli.

Francesco Gurrieri - Art Diary Critic
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Nota biografica tratta da “esercizi di critica militante” - Francesco Gurrieri, Aiόn ed. 2002
“Francesco Gurrieri, dal 1958 (anno della sua matricola universitaria) milita nell'Architettura, con spirito vasariano; con isotropa attenzione alle altre "arti" radicato nella letteratura e nella critica d'arte, fino ad animarne e dirigerne un periodico ("il Portolano"), impegnandosi nella promozione e nell'approfondimento della cultura artistica contemporanea. Le sue prime note critiche hanno interessato il lavoro di Dani Karavan, Giò Pomodoro, Bruno Saetti; ha scritto, fra i primi in Italia, di Anselm Kiefer e Costas Tsoclis. Nel ’73 collabora con Henry Moore per la collocazione del grande marmo nella piazza San Marco a Prato.
Con Renato Barilli, Knud Jensen, Amnon Barzel, Manfred Schneckenburger, è nel team dei consulenti di Giuliano Gori per la grande avventura di “Art Spaces” della Fattoria Celle, restandone garante come Landscape Architect”.
 
 
 
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