Caro Stefano - Riccardo Saldarelli

Vai ai contenuti

Menu principale:

Caro Stefano

Livello1 > Livello 2
Riccardo Saldarelli - Estate 2005

Caro Stefano

dopo non pochi ripensamenti, alla fine, mi sono deciso a partecipare alla presentazione di questa pubblicazione con una “lettera” nata rileggendo e selezionando i numerosi appunti e riflessioni suggerite dalla nostra recente corrispondenza di lavoro, anche telematica.
Scrivendoti è come rivivere con te ancora una volta momenti significativi di questo mio importante lavoro artistico che tu ben conosci per essere stato il vero testimone del ciclo completo, degli antefatti, dello svolgimento, del poi. È un modo per ringraziarti ancora.
Questo libro, è il frutto di una tua iniziativa: con la sorprendente ed inaspettata azione di quel 29 aprile appena trascorso, con il tuo amico fotografo, Luigi Rinaldelli, effettuasti un sopralluogo alla chiesetta di Santa Maria delle Grazie, in quel di Caprese nella Valtiberina Toscana, proprio sotto La Verna. Ci siete andati per un rilievo fotografico digitale ad alta definizione, con un’importante attrezzatura professionale.
Così hai rievocato la parte più positiva di un intenso periodo della mia storia personale, anni che, dal 1982 al 1992, sembrarono aprirmi porte veramente importanti per l’arte, la ricerca, la vita.
Hai visto nascere quel lavoro, eri un giovane uomo, hai partecipato a vari cantieri, sei stato l’unico mio allievo ad avere toccato con il colore quell’intonaco fresco, su un piccolo particolare che solo noi due conosciamo e per me hai posato varie volte.
In quella sperduta chiesetta dedicata alla Madonna delle Grazie altri allievi hanno imparato ad impastare la calce con la sabbia, a scalpellare l’intonaco vecchio per preparare la parete. Hanno da me imparato a dosare la malta per il primo strato d'intonaco, il rinzaffo, quello che rende gualivo il muro, e per l’arriccio, la vera preparazione, la più consistente, quella destinata a ricevere il velo, l’intonaco finale su cui dipingere a fresco, a buon fresco all’italiana, a giornate, secondo gli insegnamenti dei nostri antichi maestri toscani. Hanno imparato a stendere i cartoni, a spolverare, talvolta ad incidere l’intonaco fresco per fissare il disegno preparatorio. I più attenti hanno imparato a pulire gli attrezzi e a riordinare il cantiere prima di far festa e questo forse è l’insegnamento più importante che ho lasciato loro.
E qui tutti si sono fermati. Nessuno di loro ha toccato con qualche filo di colore quel muro.
Li hai conosciuti tutti quei ragazzi, mi hai visto imbarcarne a Firenze alcuni su quella mia vecchia Opel che poi fu rubata dagli zingari perché era grande ed aveva il gancio da traino, così almeno mi dissero a quei tempi in polizia. In quella bauliera immensa stipavo il mio bagaglio con gli attrezzi del mestiere per allestire il cantiere del fine settimana. Tu sai bene cosa erano quei weekend, diluiti nel tempo, quando potevo.
Solo così mi era possibile affrontare in economia quell’ambiziosa sfida. Un impegno artistico che, in condizioni normali, poteva essere concluso in una trentina di giornate di buon fresco con relativo cantiere, poco più di una “mesata” di lavoro effettivo. È diventata, invece, una storia di oltre due anni: era più il tempo impiegato ad aprire e chiudere, ogni volta, il cantiere che il tempo effettivamente dedicato alla pittura.
Hai visto lassù persone avvicinarmi, anche importanti, e complimentarsi per l’affresco. Ricordi Corrado Maltese? quante volte è venuto lassù per i miei incontri estivi sull’arte e quante volte ha espresso considerazione sul mio lavoro salendo con me sulle impalcature ancora in cantiere e quanti suoi allievi laureandi in storia dell’arte a La Sapienza di Roma mi mandava per fare esperienze sulle tecniche pittoriche dei maestri toscani del medioevo e del rinascimento.
E, così, venivano a trovarmi i mai dimenticati Paolo Parrini che in quegli anni aveva ottenuto uno dei massimi riconoscimenti internazionali per il restauro, Fabrizio Mancinelli che stava dirigendo proprio in quel periodo i restauri della Cappella Sistina e Carmelo Genovese, mio maestro ed amico. Ed il caro Tommaso Paloscia che venne apposta per scrivere qualcosa su “La Nazione”, lui che sul mio lavoro, con intuizione straordinariamente attuale, aveva già scritto nell’agosto 1981 il pezzo “l’incanto dell’Iran prima della bufera”.
E tanti altri ancora, non li ricordo tutti, mi visitavano in quegli anni, a cantiere aperto o a lavoro finito, anche da vari paesi stranieri. Tutti, testimoni di questo mio laboratorio di pittura murale e di quanto stava nascendovi attorno, hanno apprezzato il rigore tecnico, il suo essere stato realizzato unicamente secondo i principi ed i procedimenti del buon fresco all’italiana.
Quanti parrocchiani allora si stringevano intorno a me, curiosi o attenti. Li voglio qui rappresentare ricordando con te solo Don Piero Gai, il parroco dolcissimo che ho ritratto nell’affresco, come ho fatto con altri abitanti del luogo, ed il sindaco Pier Luigi Serafini. Entrambi, l’uno dal punto di vista religioso, l’altro da un punto di vista laico, capirono ed avallarono lo spirito e la forma del mio racconto pittorico e parteciparono, con passione ed attesa, all’esperienza umana nascente.
Qualche loro figlio, allora ragazzo delle scuole medie ha poi intrapreso le vie dell’arte e dell’architettura, forse per spirito emulativo, sicuramente sotto la suggestione di questo strano personaggio che, in modo assolutamente imprevedibile forse fuori dal tempo, stava lavorando come artista nella loro comunità, legata sostanzialmente all’economia del bosco ed alle attività zoo-agricole di montagna.
… tu sai quanto sofferto fu lo studio del bozzetto e quanto “profetico” l’inserimento dei chador e di ambienti mediorientali che avevo ben conosciuto nei miei “anni persiani”, i primi anni settanta, quando giovane architetto accettai dall’Istituto Asiatico di Shiraz la proposta di condurre campagne di rilievo monumentale nelle principali moschee del paese, proprio quei santuari sciiti da dove, lo confermerà la storia, cominciò quel processo che oggi, nel bene e nel male, tutti coinvolge.
Sono immagini catturate durante i miei viaggi e poi calate ampiamente anche nei miei quadri, nei disegni, negli studi di quel periodo e riprese poi con sfumature e rielaborazioni sempre diverse ma sempre vive nella mia memoria.
Immagini che riecheggiano quelle più lontane dei miei inizi pittorici quando ritraevo figure di donne dalla testa coperta, dal capo velato, volti antichi, fuori dal tempo, figure mediterranee, che da ragazzo e poi da adolescente avevo visto con mio padre … tra le genti dell’Aspromonte, delle Madonie, del Gennargentu e del Limbara ….
Quelle figure prevalentemente femminili in abiti tradizionali mediterranei tanto mi erano rimaste impresse da non farmi sentire del tutto straniero quando mi trovai a camminare tra le genti dei bazaar e delle moschee, nelle vie di Teheran, di Shiraz, di Mashad, di Qum, e di altre città di quello straordinario paese da cui i lontani echi delle tradizioni iraniche precristiane ci portano oggi a rievocare la leggenda dei Magi … ricordi indelebili di un oriente intravisto con i segni del dramma globale che oggi è sotto gli occhi di tutti ma che la maggior parte finge di non vedere o mistifica … il “crescendo musulmano” come lo chiamai più tardi, l’incontro epocale non più semplicemente letterario o artistico, ma come obbligatorio incontro e dico incontro, non scontro, tra due mondi, due civiltà che solo nell’amore reciproco - per noi cristiani rappresentato dall’ineguagliabile offerta della croce - potranno trovare la chiave di un’armonica convivenza.
Questo racconto pittorico ritrovato mi restituisce il ruolo, non di storico, non di politico, tanto meno quello alla moda di opinionista, ma di “sensitivo”, ruolo che da sempre ed in ogni cultura spetta agli artisti. Ché di sicuro inconsciamente, ma con forte spinta interiore, andavo rappresentando quel mondo come potevo, secondo brandelli di ricordi appuntati nei miei quaderni di viaggio, costruendo però una mia forte testimonianza.
Così, tra sinopie nascenti e giornate appena finite e nello stupore di chi mi veniva a visitare nel cantiere sempre aperto, sulle pareti ancora incomplete del piccolo santuario spuntavano inaspettate figure in chador o scorci su bazaar e su accampamenti di nomadi del deserto. Su quei muri andavo rappresentando alcuni segni e simboli dell’unico medio oriente di cui avevo conoscenza ed esperienza diretta …
… per ambientare una storia che nacque proprio in un paese mediorientale, una storia che si ripete tutti i giorni da sempre, nel macrocosmo dei popoli e nel microcosmo di ciascun individuo: la Passione di Cristo.
Sei sempre stato con me, figlio mio, e mi hai aiutato anche nella realizzazione dei cartoni finali, e tu fosti e resti il mio primo e più grande allievo.
Li conosci bene questi miei pensieri e sai anche perché scelsi per quel racconto sacro della “via dolorosa” una espressione prevalentemente figurativa.
Anche se da molto tempo porto avanti una ricerca in un particolare settore delle avanguardie artistiche, ho amato ed amo la lezione dei nostri maestri classici, amo il bello, e credo che si possono fare denuncie o lanciare messaggi anche seguendo linguaggi artistici che conservano principi e regole basati su valori estetici e compositivi.
Riguardando quelle immagini mi vengono spontanee tante riflessioni e qui le sospendo tutte tranne una: oggi questo mio lavoro mi appare ancor più pregnante per l’attualità dei riti diabolici e delle stragi degli innocenti perpetrate in ogni dove da individui senza anima …
… allora non capivo bene, avvertivo intuitivamente l’importanza della mia esperienza profonda del contatto col mondo islamico di quei lontani anni settanta …
… ero tutto concentrato sulla rappresentazione figurativa ed estetica dei miei chador e nel proseguimento caparbio del mio racconto, poetico e simbolico, sul quel mondo che io ancora sento affascinante e misterioso.
Proprio quei chador ho voluto introdurre anche in quella sacra rappresentazione … quasi il mio desiderio inconscio di offrire a Cristo martirizzato, che rappresenta nella Via Crucis tutte le croci del mondo … anche questa preghiera d’unione fraterna fra mondi apparentemente così distanti.
E in chador ho rappresentato Maria Madre, la Maddalena, la Veronica, le pie donne … sentivo allora, oggi ancor di più, che il succo della questione era e resta la vera fede nell’unico Dio che ci può affratellare, non certo dividere. Oggi perciò questo mio lavoro mi appare quanto mai attuale e mi ci riconosco non solo come artista ma come uomo di fede.
A chi se non a te potevo esternare questi miei pensieri! Mi hai consentito di rileggere, in chiavi totalmente imprevedibili, il mio lavoro pittorico e non solo, tu che allora giovane uomo posasti per quel potente Cristo risorto che ancora oggi, in quella piccola chiesa di montagna, guarda il sacerdote mentre celebra la S. Messa.

Estate 2005
Babbo

 
 
Torna ai contenuti | Torna al menu